Abisso - Un racconto di Claudio Santoro




Un’aggressione.

Qualcuno aveva staccato il gas. I termosifoni erano freddi e le lampadine spente. Forse per sempre.

O finché qualcuno non sarebbe tornato ad abitare lì.

Faceva molto freddo.

Poi c’era quella parola incisa con un coltello sul tavolino di plastica nella veranda. Anche se in quel momento Julia non avrebbe saputo dire quale tipo di coltello fosse stato usato.

Due cadaveri adulti nel salone: il marito sdraiato di fianco al di sotto del tavolo, in una posizione quasi fetale, e la moglie a ridosso della finestra, il telefono a pochi passi da lei con lo schermo infranto.

E un bambino decapitato in cucina.

La testa era stata incastrata in una tazza larga, di quelle da latte o da caffè americano.

Julia fece una smorfia: perché la tazza? Che senso aveva? E con che tipo di coltello era stata tagliata la testa del bambino? Doveva essere affilato.

Diede un’occhiata alla cucina da cui era stato sottratto: sembrava un autolavaggio dove, al posto del sapone, era stato utilizzato il sangue.

Poi tornò in salone. Le pareti erano piene di macchioline rosse ricorrenti che conducevano al seggiolone dove era stato infilato il poppante senza testa. Avevano un che di artistico.

Da grande, chissà, sarebbe potuto diventare un astrattista.

Per Julia, profiler giovane ma con già diversi casi importanti alle spalle – di quelli che salgono agli onori della cronaca televisiva più becera – si trattava di un caso irripetibile. Per la scientifica sarebbe stato un gran bel lavoro. Lanciò un’ultima occhiata fugace e tornò in veranda.

Gli agenti stavano interrogando i vicini di casa. Julia poteva sentire i motori accesi delle volanti, il suono delle radio e il chiacchiericcio di quelle prime, inutili indagini. C’era più luce fuori, nel gelo di quel silenzio rotto solo a tratti e così freddo da rendere i suoni insignificanti.

Si soffiò il naso. Faceva freddo anche quando si era alzata dal letto e aveva raggiunto quella casa. Presto la polizia avrebbe iniziato a parlare di profili da tracciare e lei voleva sfruttare quei pochi momenti per capire fin dove l’umana diavoleria potesse spingersi.

Il silenzio è d’oro per una profiler nei primi minuti sulla scena di un crimine.

Il diavolo aveva messo le radici in quella casa.

I genitori erano stati uccisi con due colpi di pistola in mezzo agli occhi: una precisione esemplare. Lei avrebbe detto: un’esecuzione.

Si guardò intorno e vide gli schizzi sulle pareti, intuendo la traiettoria dei proiettili. Li cercò per qualche secondo, convinta che avessero trapassato le testa delle vittime. Ma poi notò che non c’erano fori d’uscita.

Strano, pensò.

Ma ciò che non riusciva a togliersi dalla testa era la tipologia del coltello usato per decapitare il lattante. Non le veniva proprio in mente.

Non le importava della polizia. A lei interessava l’umanità che si celava dietro quel crimine, non la verità.

Quella la conosceva bene.

Era sempre la solita storia: l’essere umano che prova ad andare oltre, che la smette di guardare nell’abisso e ci si tuffa. Chi non è stato in quella condizione mistica e selvatica almeno una volta nella vita? Anche facendo a botte con l’inconscio. Come una puntura di troppo fatta a una moglie diabetica che è diventata solo un peso. Significa convincersi che un delitto possa davvero essere un incidente. Ma è quasi sempre un atto ricercato E quando inizi a segare con una lama seghettata la tua coscienza, poi finisci per tagliare i nervi.

È inevitabile.

Capiva queste cose perché sapeva analizzare le menti dei più atroci criminali.

E perché era stata lei.

Rise in silenzio per la gioia: si era ricordata.

Un Santoku con seghetto. Ecco cos’aveva usato.

Guardò ancora una volta la parola incisa sul tavolino.

Abisso.

Poteva incolpare chi voleva della testolina morbida nella tazza. E un responsabile, per quell’atroce triplice omicidio, l’avrebbe senz’altro trovato.

Era la profiler dalle cui labbra pendevano tutti.

Era la sua arma in più.

C’era un’altra cosa.

I suoi cento passi di vantaggio: amava uccidere senza un modus operandi prestabilito.

E le macchioline di sangue sulle pareti, in fondo, erano solo le impronte di un neonato che tenta di scappare dalle braccia di una donna che lo sta decapitando con il coltello da cucina della mamma.



Claudio Santoro nasce a Roma nel «calcinante Monteverde» raccontato da Pasolini. Ha studiato Filosofia alla Sapienza di Roma prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura come ghostwriter, editor e coach letterario. Ha curato diverse antologie. Come autore ha pubblicato racconto per Les Flâneurs, I Parolanti, Edizioni della Sera e Meligrana. Ama la scrittura di Poe, Dostoevskij e Kafka e il cinema di Chaplin, Sergio Leone e Kubrick.



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