Il Sorcio - un racconto di Marco Peluso


 

Era la terza volta che il signor Esposito sistemava la stessa cartella nello schedario 9463, novembre 2018, plico 62. Dall’ufficio anagrafe avevano voluto accertarsi di nuovo che il signor Guido Alosa fosse morto alle dodici e diciotto minuti anziché alle dodici e ventidue come il signor Ciro Bifulco: schedario 9464, novembre 2018, plico 62. Il signor Esposito aveva già sistemato almeno dodici cartelle durante il turno di lavoro: dodici persone sconosciute di cui ricordava nome, cognome, età e ora di morte. Rammentava ancora il primo schedario della sua vita: 1462, febbraio 1996, plico 8, Ida Sepe, morta alle ore venti e quaranta.
Raddrizzò gli occhiali e si sistemò la cravatta, spense il computer e ordinò le matite nel portapenne.
Seduto, sorseggiava a piccoli sorsi del the alle erbe, gli occhi fissi sull’orologio in attesa che scoccassero le quattro.
Alle quattro in punto si alzò dalla sedia, pulì la tazza su cui c’era scritto “Il miglior figlio del mondo” e la ripose nella ventiquattrore. Si guardò attorno per controllare che non avesse lasciato nulla in giro e poi andò via.
Attraversò un corridoio affollato di persone ferme a chiacchierare davanti agli uffici. Avanzava a testa bassa. Ogni tanto qualcuno lo guardava e rideva.
«Ma davvero è vergine?»
«Pensa che a quarantacinque anni vive ancora con la mamma.»
Dopo oltre vent’anni di lavoro neanche le sentiva più quelle voci, gli scivolavano addosso come l’acqua e il sapone durante i bagni da bambino, quando sua madre lo sfregava con una spugna dura quanto la carta vetrata.
«Sei sporco da fare schifo! Ma non ti vergogni?»
Uscito dall’edificio superò un parco che sembrava abbandonato da anni, le aiuole erano colme di rifiuti, il laghetto prosciugato.
Da piccolo ci andava spesso con suo padre e lui gli insegnava tutto sugli alberi, sui fiori, sugli uccelli; a volte lo portava persino nei boschi a caccia.
Conservava ancora il fucile di suo padre. Gli era costata tanta fatica farselo ridare dalla polizia.
«Lei è davvero un brav’uomo. E poi, ormai…»
Sparì in un dedalo di edifici ed entrò in un minuscolo alimentari, alla cassa sedeva una donna grassa e truccata in modo vistoso, sfogliava una rivista di gossip con fare annoiato.
Il signor Esposito le sorrise.
«Buon pomeriggio.»
Ma lei neppure lo guardò.
Si allontanò con calma fra gli scaffali e prese del latte, biscotti, tonno e the alle erbe. Al banco salumi un uomo panciuto e dall’aria truce lo accolse affilando un coltello.
«Sempre la solita roba?» gli chiese, senza neanche alzare lo sguardo.
Lui sorrideva ancora, ordinò due etti di prosciutto cotto e due di crudo.
«Mi raccomando, senza grasso.»
Tornato alla cassa, la donna prezzò i prodotti senza distogliere gli occhi dalla rivista. Il signor Esposito continuava a sorridere, del tutto immobile.
Uscito dalla bottega, si addentrò in un cunicolo di edifici, fino a fermarsi di fronte a una minuscola edicola.
L’edicolante rispose al suo sorriso con un ringhio, ma lui non se ne curò, ordinò una copia dell’Avvenire e mise mano al portafoglio.
«Quant’è?»
L’uomo gli sbatté il giornale davanti.
«Lo stesso prezzo di ieri.»
Diretto verso casa, incrociò una vecchietta benvestita che portava a spasso un minuscolo chihuahua e gli sorrideva.
«Buona sera, signor Esposito.»
«Buon pomeriggio, signora Celardo. L’aiuto con le buste?»
«Oh no caro, grazie tante, porto un po’ a spasso Penny. Mi saluti la mamma.»
«Senz’altro.»
Se la lasciò alle spalle e svanì in un palazzo di cemento privo di balconi, tappezzato solo da anonime finestre simili a tanti occhi accecati. Nell’androne, le voci dei televisori provenienti dagli appartamenti si mischiavano a urla isteriche.
Entrato in casa, posò il cappotto su un appendiabiti di legno, accanto c’era un mobiletto di noce su cui era posta la foto di suo padre, di suo nonno, di sua nonna e un’icona della vergine Maria illuminata da un lumino.
Giunto in cucina sistemò la spesa, tolse dalla valigetta la tazza e il thermos con il the e poggiò tutto con cura su di una mensola. Poi ripose in un piatto quattro fette di cotto e quattro di crudo e riempì di latte un bicchiere.
Vassoio in mano, avanzò nel corridoio, verso una porta chiusa da cui si intravedeva un bagliore bluastro e si udiva il fragore di un televisore acceso.
«Mammina, posso?»
Non si sentì una voce. Sua madre era arenata sul letto, come un’enorme balena. Una vestaglia bianca a stento le copriva le cosce lardose. I piedi non avevano più forma. Il mento poggiato sul petto formava un unico ammasso di carne sudata.
Fissava il televisore con occhi simili a spilli.
«Come va, mamma? Ti saluta la signora Celardo.»
Ma lei nemmeno rispose.
Il signor Esposito posò il vassoio sul comò su cui era poggiata una foto di sua madre da giovane: era magra, persino bella. Ne ricordava ancora la voce.
«Per metterti al mondo ho rinunciato a tutto.»
«Lo so mamma, scusa…»
«E tuo padre si lamentava pure! Come se non sapesse cosa succede alle donne quando hanno un figlio. Ma quale tiroide e tiroide! È solo colpa tua.»
Il signor Esposito tagliò in minuscoli pezzi il prosciutto e li portò alla bocca di sua madre, dopo l’ictus non riusciva a mangiare altro.
«Su, mangia, mamma…»
Lei non muoveva neppure le labbra, suo figlio le cacciava in bocca il cibo e lo raccoglieva ogni volta che lo sputava, per poi imboccarla ancora.
«Dai mammina, mangia, su…»
Dopo averle dato da mangiare le lesse il giornale. Poi le rimboccò le coperte e le baciò la fronte.
«Mamma, chiamami se hai bisogno.»
Mentre usciva, lei seguitava a grugnire con fare rabbioso, ma lui andava avanti e sorrideva. Arrivato in cucina si preparò un toast con del prosciutto, versò del latte nella sua tazza e si chiuse nella propria stanza.
Il parato era decorato da cowboy. Sulle mensole c’erano modellini d’auto, soldatini di piombo, enciclopedie di ornitologia e uccelli impagliati: tutti regali di suo padre, come la tazza che stringeva in mano.
Si sistemò davanti alla finestra e iniziò a mangiare.
La luce dell’appartamento di fronte era accesa, la signora Celardo era rincasata. Erano di certo le sei e mezza, perché si preparava al Santo rosario.
In un'altra casa il signor Aruta stirava un completo blu: lo indossava ogni giovedì. Nell’appartamento di sopra un vecchio, il signor D’Onofrio, mangiava pomodori stufati in scatola. In un’altra abitazione la signorina D’Elia guardava una serie tv, quella che fino a tre settimane prima vedeva con Claudio.
Il signor Esposito mandò giù l’ultimo boccone e bevve un sorso di latte. Poggiò la tazza sulla scrivania, poi, fra fascicoli ben ordinati, tirò fuori una cartellina e annotò: mercoledì, giorno 20, Claudio non è riapparso.
Tornò alla finestra. A un tratto la luce di un appartamento si accese e lui balzò indietro.
Si avvicinò furtivo, incuriosito, senza scostare lo sguardo da quell’occhio di luce che pareva fissarlo.
Era la casa della signora Grassi, morta d’infarto da due mesi. Al suo interno una giovane ragazza si muoveva con la grazia di una farfalla, a ogni gesto i capelli ondeggiavano come se tracciassero una scia dorata.
Il signor Esposito la osservò disfare le valigie, ovunque volavano vestiti, scarpe, l’intimo, tracce di femminilità. Gli sembrava quasi di respirare il profumo di quella sconosciuta, lì a un palmo da lui.
Poi, a un tratto, lei svanì in un’altra stanza. Il signor Esposito schiacciò il viso contro al vetro, quasi potesse trapassarlo e raggiungerla. Pochi attimi dopo la vide tornare nel soggiorno: la vestaglia slacciata, fra le dita una tazza di caffè.
La spiò seduta sul divano, la gamba accavallata che ciondolava, le sue labbra che si poggiavano delicate sulla tazza.
Le mosse insieme a lei, come potesse sfiorarle.
Di colpo un verso di sua madre lo fece trasalire. Gli parve di sentirne il fiato sul collo, come quando aveva nove anni e lei, di notte, l’aveva trovato paralizzato sull’uscio del bagno.
«Che fai lì? Cosa diavolo guardi?»
Uscì spedito dalla stanza, sua madre si rigirava nel letto e indicava il telecomando sul pavimento.
In fretta, senza scomporsi, glielo raccolse e le baciò la fronte.
«Mamma, cerca di riposare.»
Lei grugnì soltanto, lo sguardo indagatore su di lui.
«Mammina, se hai bisogno chiama.»
La lasciò lì, si affrettò in camera sua e corse alla finestra, seguito dai brontolii di sua madre.
La luce era spenta, la ragazza non c’era più.
Il giorno seguente, in ufficio, il signor Esposito continuava a fissare le scaffalature di ferro piene di fascicoli, ma non vedeva altro che la pelle chiara e liscia di quella ragazza, i suoi capelli color grano, le spalle esili e il corpo sinuoso.
Sovrappensiero, versò del the nella tazza di suo padre, ma si bloccò immediatamente: muoveva le labbra come in cerca di qualcosa di morbido, di carne viva.
Un bacio.
Lasciò la tazza e afferrò il telefono. Sudava freddo. Le gambe gli tremavano sotto la scrivania.
«Ehm, sì, buongiorno. Per favore, potrebbe portare un caffè qui vicino, nel palazzo del Comune. Come dice? Ah, l’ufficio. No, non ha un nome l’ufficio. Al secondo piano, ultima porta a destra. Vicino ai bagni.»
Quando mise giù si guardò attorno con fare guardingo. Era la prima volta che aveva usato quel telefono per qualcosa di personale. Temeva che da un momento a un altro potesse entrare qualcuno e urlargli contro: «Che razza di essere sei? Sei una bestia!»
Quando il ragazzo del bar bussò alla porta, lui balzò dalla paura.
«Qualcuno ti ha visto? Ti hanno chiesto qualcosa?»
Il ragazzo lo guardò annoiato, neppure ringraziò quando gli lasciò cinque euro di mancia.
«Però non dirlo a nessuno, mi raccomando. Siamo intesi?»
Appena il garzone scomparse, il signor Esposito posò gli occhi sul bicchiere poggiato sul tavolo, immobile, non vedeva altro.
Allungò più volte la mano, aveva paura di sfiorarlo. Poi all’improvviso mandò tutto giù in un sorso.
Chiuse gli occhi e mosse delicatamente le labbra contro il bicchiere. Sorrise, sul viso si dipanava un’espressione da bambino. Era rosso in viso. Avvertiva qualcosa di turgido nei calzoni.
Si sfiorò le labbra con le dita e tornò a guardare gli schedari sulle mensole alle pareti. Ora più che mai sentiva di doverle dare un nome: lei doveva avere un nome!
Ne aveva pensati a decine: Grazia, Gloria, Divina, Lucia, Esmeralda; li aveva annotati tutti su un foglio, per poi cancellarli subito, quasi gli fosse sembrato che un nome fosse troppo poco per quella creatura.
Le matite erano ancora sparse sui pezzi di carta sparpagliati sulla scrivania, la tazza di suo padre abbandonata come una lapide anonima.  
All'improvviso un trillo lo fece saltare dalla sedia.
In fretta sistemò matite e fogli e nascose la tazza e il bicchiere del caffè, come se qualcuno lo stesse spiando.
Raccolse il telefono, gli tremava in mano.
«Sì… Certo, subito. La signora Esposito? Ah sì! Lara Esposito. Sì, mi scusi…»
Si alzò e raccolse una cartellina nello schedario 9464, novembre, plico III.
«Deceduta oggi alle undici e cinque del mattino.»
Non altro. Rimase seduto a osservare quella cartellina, quel nome: Lara.
Si guardò attorno furtivo, poi aprì la sua ventiquattrore e ci infilò dentro il fascicolo.
Lara, Lara Esposito. Aveva deciso che lei doveva chiamarsi così. Non poteva che chiamarsi così.
Uscito dall’ufficio, corse subito verso la salumeria. Incrociò la signora Celardo, ma a malapena la salutò.
«Mi saluti sua madre, mi raccomando.»
«Lo farò senz’altro…»
Una volta nel negozio si affrettò di scaffale in scaffale. Gettò nel cestino latte e tonno e superò il ripiano dove stava il the, diretto verso le confezioni di caffè.  Le passò a rassegna a una a una, ogni marca; da dietro la cassa la cicciona lo guardava disgustata mentre masticava una gomma.
«Guardi che è tutta la stessa roba.»
Il signor Esposito parve non udirla, gli occhi fissi sulle etichette e il dito che sfiorava ogni confezione.
Ne prese a decine, riempì il cestino e raggiunse il banco salumi.
Il salumiere, a braccia incrociate, lo guardò infastidito.
«Allora, si decide, il solito o cosa?»
Prese il prosciutto per sua madre e spedito raggiunse la cassa, per poi filare in strada, verso casa. Fu costretto a tornare indietro per comprare il giornale. Stavolta non chiese neppure prezzo, gettò delle monete sul banco, lo arraffò e andò via.
«Ma dove cazzo vai? Il resto!»
Entrato in casa, lasciò tutto sul tavolo, assieme alla ventiquattrore. Posò quattro fette di cotto e sei di crudo in un piatto, versò del latte in un bicchiere e, vassoio in mano, andò da sua madre.
Lei lo guardava e grugniva, il rumore della tv a tutto volume confondeva i suoi versi.
«Come va mamma?»
Non la baciò nemmeno, iniziò subito a imboccarla, le ficcava in bocca pezzi sempre più grandi mentre lei si dimenava e sputava ogni boccone.
«Da brava, mamma...»
Le lesse appena una pagina del giornale e uscì da lì per correre in cucina. Neppure si preparò la cena, mise subito sul fornello il caffè e attese che fosse pronto, gli occhi palpitanti e il sorriso tremulo sul viso.
Versò tutto nella tazza di suo padre e andò veloce nella propria stanza. Filò subito alla finestra, fin quasi a sbatterci contro.
La signora Celardo sistemava casa. Il signor Aruta aveva messo a lavare l’abito blu. La signorina D’Elia baciava Claudio.
La luce nell’appartamento di Lara era accesa, i mobili cambiati.
Tutto aveva un aspetto femminile, voluttuoso, intimo.
All’improvviso la vide guizzare nel tinello, indossava una vestaglia orientale che le lasciava le gambe scoperte.
Un bollore fulmineo gli pervase il corpo. Vuotò in un fiato la tazza e all’istante, rosso in viso, iniziò a prendere a testate la finestra, come gli aveva insegnato sua madre quando, da adolescente, l’aveva scoperto in bagno a masturbarsi.
«Ti insegno io a comportarti, piccolo sorcio! Non mi sono rovinata per fare di te un porco come tuo padre.»
Ma Lara era sempre lì, ora seduta sul divano: le cosce in bella vista mentre parlava al telefono.
“Con chi diavolo parli?” avrebbe voluto urlarle, ignorando i grugniti di sua madre che provenivano dalla camera da letto.
Quando andò da lei la trovò sul pavimento, dimenava le gambe e le braccia come una blatta capovolta.
«Mammina…»
A fatica la rimise a letto, poi corse subito da Lara, inseguito dai versi inferociti di sua madre.
Precipitò con la faccia sul vetro, il viso si contrasse pian piano in una smorfia di dolore.
Lei non c’era più, era rimasta solo la sua vestaglia sul divano. Ma in un lampo la vide uscire da un’altra stanza, indossava un abito rosso, in fretta infilò la giacca e uscì di casa.
Agitato, il signor Esposito spalancò la finestra. Si sporse fuori così tanto che sembrava volesse gettarsi giù, il vento lo schiaffeggiava e lei si allontanava sempre di più.
La vide entrare in un taxi e poi sparire. Tese una mano per fermarla, ma niente, non lo aveva visto. Era andata.
Il signor Esposito rimase tutta la notte incollato alla finestra in attesa che Lara tornasse. Dalla camera da letto ogni tanto si udivano colpi di tosse e i grugniti di sua madre, ma lui non si muoveva.
La vide rincasare alle tre passate, accompagnata da un uomo.
Entrambi ridevano.
Per un attimo ebbe l’impressione che ridessero di lui.
Le mani schiacciate sui vetri macchiati dal proprio fiato, osservò passo dopo passo l’uomo salire i gradini del palazzo, accanto a Lara. La teneva sotto al braccio.
Mandò giù in un sorso un’altra tazza di caffè, gli occhi spiritati che seguivano Lara e quello sconosciuto.
Temeva che lui entrasse, non osava pensare a cosa avrebbe fatto se fosse davvero andato da lei, con Lara. Ma arrivati di fronte al portone dell’edificio l’uomo le baciò le guance e andò via.
Il signor Esposito scoppiò a ridere, una risata folle, le pupille fisse su Lara che, ubriaca, ora barcollava in casa e si spogliava.
Dalla camera da letto si udiva il grugnito di sua madre che lo chiamava, rimbombava nella stanza, ma lui neppure lo udiva. Portò la tazza alla bocca, senza accorgersi che era vuota, fissava solo la luce accesa nell’appartamento di Lara.
Il giorno dopo, al lavoro, rimase imbambolato a guardare il monitor del computer, alzava il braccio giusto per portare la tazza di caffè alla bocca. Non rispose al telefono per ben due volte. Il capo dovette precipitarsi nel suo ufficio, come mai aveva fatto prima.
«Esposito, potremmo sapere a che ora di preciso è morto il signor Bellino? O è troppo disturbo per te fare il tuo lavoro?»
Gli sorrise appena, immobile, gli occhi su di lui e la tazza di caffè contro la bocca.
Per la prima volta vide il suo capo arretrare spaventato, bianco in viso.
Lui continuava a sorridergli, osservandolo andare via.
Finito di lavorare, attraversò il corridoio di sempre, senza badare ai commenti dei colleghi. Si diresse spedito al supermercato, nell’entrare nemmeno salutò la cassiera che lo scrutava disgustata, prese un carrello e passò di scaffale in scaffale. Ci gettò dentro biscotti, del tonno, carne in scatola, sughi pronti, barattoli di cioccolato e altro caffè.
Corse al banco salumi.
«Duecent…»
Si ammutolì di colpo.
«Un chilo di cotto e un chilo di crudo. E lasci il grasso.»
Il salumiere lo guardò stranito, poi fece spallucce e lo servì.
Giunto a casa, abbandonò la spesa in cucina, mise su la caffettiera e si affrettò in camera.
La luce dell’appartamento di Lara era accesa, ma lei non c’era, sul divano giacevano vestiti e biancheria.
Le sue pupille scrutavano ogni anfratto della casa, con le dita grattava contro la finestra come se volesse spaccarla, giungere oltre, arrivare a quell’intimità di Lara che non poteva violare.
Poi la vide entrare nel soggiorno, nuda, fra le mani stringeva una tovaglia con cui si asciugava.
Diede un pugno al muro e si strinse la testa tra le mani, respirava a fatica, dalla camera da letto provenivano i grugniti di sua madre ma lui non vedeva che Lara.
Nell’osservarla sparire in un’altra stanza, subito spalancò la finestra, quasi volesse spiccare il volo e raggiungerla, ma appena lei tornò nel soggiorno, fasciata da una vestaglia orientale, la scrutò con attenzione andare ai fornelli e prepararsi da mangiare. Un solo piatto. Un solo bicchiere.
Accasciò il capo contro al vetro e con un profondo respiro parve svuotarsi di tutto. All’improvviso scoppiò a ridere, non riusciva a smettere.
Nell’altra stanza non c’era nessuno. Lei era sola.
A fatica si tirò su, guardò appena l’uscio della camera da cui provenivano i versi di sua madre e a passo lento si trascinò in cucina.
Versato del caffè nella tazza di suo padre, gettò qualche fetta di prosciutto sul vassoio e andò da sua madre. La trovò rivoltata su di un lato, tossiva e rigettava sul cuscino.
«Mamma, sono qua.»
Le infilò subito in bocca dei pezzi di prosciutto, non badava nemmeno a quanto fossero grossi né alla saliva che gli colava sulla mano.
«Su mamma, è per il tuo bene.»
Subito dopo andò in cucina. Preparò altro caffè e lo mise in un thermos, poi prese del tonno, carne in scatola, insalata di pomodori, bottiglie d’acqua e salumi e raggiunse la propria stanza.
Chiusa la porta a chiave, lasciò quella roba sul letto e corse alla finestra.
Lara dormiva sul divano, aveva un dito in bocca.
Lui sorrise e si lasciò cadere contro al muro, gli occhi ancora fissi sulla finestra. Non riusciva a smettere di fissarla.
In ventidue anni era la prima volta che si era dato malato al lavoro. Non aveva chiuso occhio. Era rimasto appostato notte e giorno alla finestra, sul pavimento e sui mobili erano abbandonati piatti zeppi di avanzi di cibo e bottiglie di vino vuote. Portava continuamente alla bocca la tazza piena di caffè, senza distogliere un solo istante gli occhi dall’appartamento di Lara.
A una parete era appesa la scheda rubata in ufficio, aveva cancellato la data di morte della donna e sostituito la sua foto con una scattata di nascosto a Lara.
Ai suoi piedi c’era un taccuino aperto:
Lara: novembre 2018, plico I.
Ore 10.00: Lara si è svegliata.
Ore 10.30: Lara prende il caffè: due cucchiaini di zucchero; mangia pancarré con marmellata di ciliegie (ricorda di comprarne).
Ore 11:16: Lara è rimasta in bagno 21 minuti.
Ore 12:19: Lara si è vestita: un abito nero, scarpe dal tacco alto color rosso, come il cappotto.
Ore 12:32: Lara è uscita di casa ed è andata in direzione del corso.
Si precipitò in cucina, preparò alla svelta il pranzo a sua madre e filò da lei.
«Ciao, mammina…»
Nella stanza c’era puzza di piscio e di merda. Sua madre si dimenava tra le lenzuola lerce, sudava ed era rossa in viso.
Il signor Esposito le ficcò in bocca un’intera fetta di prosciutto, poi un’altra ancora e un’altra. Lei tossiva e sputava il cibo, ma lui glielo ricacciava in gola. Le fece bere d’un fiato un bicchiere di latte, ma lei glielo vomitò addosso. Non se ne curò neppure, si nettò la mano sulla coperta e le baciò la fronte.
«È per il tuo bene, mamma.»
Lasciò lì il vassoio a andò subito in camera sua, per precipitarsi alla finestra. Non si mosse di un solo passo, fissava la strada e mangiava cibo in scatola, il pavimento era zeppo di bicchierini da caffè accartocciati.
Appena vide Lara lasciò cadere la scatoletta e afferrò il taccuino.
Ore 13.42: Lara è tornata, ha fatto compere.
Ore 13:44: Lara ha comprato dei cioccolatini fondenti, due bottiglie di vino rosso, delle ciliegie e un pezzo d’arrosto. Ha anche una busta di Coconuda, probabilmente un vestito.
La osservò entrare in camera da letto e poi uscirne in vestaglia e stendersi sul divano a guardare una Soap Opera, mentre mangiava delle ciliegie.
Ore 14.02: Lara ama le ciliegie, non solo la marmellata. Adora Vento di passioni.
Attese che si addormentasse e subito uscì di casa. Fece i gradini a due a due, gli sembrava di volare.
Arrivato al supermercato, passò davanti alla cassiera senza neppure salutarla e sfrecciò di scaffale in scaffale, gli occhi spiritati su ogni prodotto.
Comprò sei chili di ciliegie, due grossi pezzi di arrosto, cioccolatini fondenti e dieci bottiglie di vino rosso.
La signora Celardo lo vide uscire carico di buste.
«Oh, avete ospiti?»
Ma lui non le rispose, neanche la vide. Affannato, filò a casa e lasciò tutto in camera sua, poi si affrettò nella stanza di sua madre.
La trovò con la faccia schiacciata sul cuscino, non la smetteva di tossire. L’aria era irrespirabile, satura di marcio, il signor Esposito quasi scivolò su una pozza di vomito nel raggiungere il televisore.
Staccò i cavi e lo trascinò via.
«Scusa, mammina…»
I grugniti di sua madre lo inseguirono finché si barricò di nuovo in camera. Accese subito il televisore e registrò la replica di Vento di Passioni. Seduto di fronte alla finestra, divorava ciliegie e cioccolatini, guardando lo schermo e sbirciando di continuo la strada.
Ore 15.12: Lara dorme ancora.
Lara non si era mossa di casa tutto il pomeriggio. Aveva dormito, guardato la tv ed era stata a telefono.
Con chi?
Il signor Esposito non smetteva di chiederselo. Mangiava ciliegie, si scolava bottiglie di vino e beveva caffè per restare sveglio, lucido, attento a ogni movimento di Lara.
Poi in serata la vide barricarsi in bagno e, dopo un po', uscire di casa tutta agghindata.
Ore 20.23: Lara è uscita di nuovo e ha preso un taxi. Indossava un vestito nero e una pelliccia bianca, calzava scarpe dal tacco alto.
Attirato dai lamenti di sua madre e approfittando dell’assenza di Lara, uscì dalla stanza per andare in cucina.
«Arrivo, mamma…»
Mentre preparava la cena di sua madre, mise a bollire un pezzo d’arrosto in una pentola e fece altro caffè.
Arrivato da lei, la trovò a terra, avvolta nelle vesti lerce di escrementi.
«Mammina…»
A malapena riuscì a rivoltarla.
«Mangia, dai...»
Non si curava che ingoiasse, le ficcava in gola intere fette di prosciutto mentre lei grugniva e tossiva arrancando l’aria, gli occhi colmi di collera fissi su di lui che continuava a sorriderle e imboccarla.
«Dai che ti fa bene…»
La lasciò lì sul pavimento e, una volta preso l’arrosto ancora mezzo crudo e il caffè dalla cucina, si rinchiuse di nuovo in camera.
Ore 21.25: Lara non è ancora tornata.
Lara riapparse all’una di notte, a bordo di un’auto di lusso guidata da un uomo sui cinquanta, panciuto ma vestito in modo elegante.
Ore 01.12: Lara è tornata in auto: BMW 320 nera, targa: AX642GH. L’uomo non è quello dell’altra volta: è calvo, ha il pizzetto nero, l’ha solo accompagnata alla porta dell’edificio e l’ha salutata baciandole le guance. Non è salito.
Entrata in casa, Lara barcollò contro le pareti e cadde sul divano. Rideva, non riusciva a smettere. Poi a un tratto si ammutolì e strinse la faccia contro il guanciale.
Ore 01.22: Lara si è addormentata sul divano. Credo sia ubriaca.
Rimase ore a spiarla, seduto ai piedi della finestra. Mangiava arrosto grondante sangue e beveva vino, incurante del fetore che si dipanava nella stanza da pallottole di carta piene di escrementi e da bottiglie colme di piscio. Al di là della porta si sentiva sua madre tossire e grugnire sempre più forte, quasi riuscisse ad articolare delle parole, un ultimo lamento che suo figlio nemmeno sentiva, fermo contro al vetro della finestra: il volto sporco, un filo di barba sul viso, la bottiglia stretta in mano e sullo schermo della tv la puntata di Vento di passioni da lui registrata che continuava a scorrere.
Balzò nel vedere Lara rigirarsi sul divano.
Ore 03.32: Lara dorme ancora, si è appena mossa. Dio mio, è dolcissima!
Da quattro giorni il signor Esposito non usciva dalla propria stanza. Dormiva poche ore, sempre incollato alla finestra. La stanza era ridotta a una latrina, aveva pisciato persino nella tazza di suo padre e usato le enciclopedie di ornitologia per nettarsi il culo. Avanzi di cibo imputridivano sul pavimento, proprio come sua madre. Ormai andava da lei solo per darle da mangiare, poi correva subito in camera sua.
Lara continuava a passare le giornate a casa, guardava la tv e stava al telefono. Di sera, invece, usciva e tornava tardi, accompagnata ora da un uomo, ora da un altro.
Ore 02.42: Stanotte è tornata in taxi.
Ore 00.58: È tornata con un uomo calvo, elegante, baffi neri.
Ore 01.56: L’uomo della BMW le ha dato 300 euro.
Dopo cinque giorni, il signor Esposito uscì di casa. Il prosciutto per sua madre era finito, così il vino, il caffè, le ciliegie e i cioccolatini. Inoltre aveva scoperto che a Lara piaceva il merluzzo.
Ore 14.12: anche oggi Lara ha mangiato merluzzo. Deve per forza significare qualcosa!
Arrivato in strada, rimase pietrificato: Lara stava uscendo dal proprio palazzo, neanche dieci minuti prima l’aveva vista dormire.
Si prendeva gioco di lui?
La seguì con lo sguardo e la vide svanire in un taxi. In fretta, il volto segnato dallo stupore, tirò dalla giacca una penna e un foglio e ci scrisse sopra: Ore 15.08: Lara è uscita improvvisamente. Ha preso un taxi.
Lo sguardo basso e il foglio stretto in un pugno, avanzò tra i palazzi che lo circondavano, sembravano soffocarlo. Neppure notò la signora Celardo portare a spasso il cane e salutarlo.
«Oh figlio mio, è da giorni che non la vedo. La mamma come sta?»
Spinse via la vecchia e corse in salumeria. La cassiera lo seguiva con lo sguardo mentre passava veloce tre le scansie, attenta a ogni suo movimento. Quasi non ebbe il coraggio di rivolgergli la parola quando si presentò alla cassa con venti bottiglie di vino, dieci confezioni di caffè, tre chili di merluzzo, ciliegie, cioccolatini e due enormi pezzi di arrosto.
Lui sorrideva soltanto.
Dovette tornare indietro per il prosciutto.
Una volta fuori al negozio, vide la signora Celardo rivolgersi con fare agitato al fruttivendolo dall’altra parte della strada, il suo cagnolino era legato a un palo fuori alla bottega.
«Ma si rende conto di cosa mi ha fatto? Se solo lo sapesse quella santa donna di sua madre. Dio mio, ora soltanto immagino quale inferno stia vivendo con un figlio del genere. Secondo lei dovrei avvertire qualcuno?»
Le buste della spesa strette nelle mani, avanzò di un passo, poi ancora un altro e un altro ancora. Il cane gli ringhiava contro e lo fissava dritto negli occhi, la vecchia continuava a parlare al fruttivendolo e Lara ancora non si vedeva, era andata via senza dirgli niente, prendendosi gioco di lui, ingannandolo.
In un attimo alzò una gamba e colpì la testa del cane con un calcio, schiacciandogli il cranio sotto al calcagno. Gli occhi della bestiolina, fuori dalle orbite e riversi su un grumo di sangue, parevano ancora fissarlo, ma ora non c’era più alcun rumore, tutto era silenzio. Lara non rideva più di lui, no, l’aveva messa a tacere.
Si voltò di scatto e corse via, le grida della signora Celardo lo travolsero come una fiumana ma lui non si fermò. Sentiva di non poter più tornare più indietro, e nemmeno Lara.
Arrivato a casa, lasciò tutto in camera sua. Frugò in fretta nelle buste e prese solo il prosciutto, per poi filare da sua madre.
Lei giaceva a terra, fra merda e piscio, gli occhi vitrei nel vuoto e un filo di vomito che le colava dalla bocca assieme a un rivolo di sangue.
Il signor Esposito si chinò e le ficcò alcune fette di prosciutto in gola.
«Dai, mammina...»
Ma lei non si mosse, le labbra immobili e gli occhi privi di vita su di lui.
Le gettò dritto in bocca il bicchiere di latte e sfrecciò in cucina, preparò del caffè e tornò in camera sua.
Seduto di fronte alla finestra, mangiava merluzzo assieme a ciliegie e beveva sia vino che caffè.
Ore 15.45: Lara non è ancora tornata.
Ore 18.15: Lara non è ancora tornata.
Ore 22.40: Lara non è ancora tornata.
Camminava avanti e indietro nella stanza. Con una manata scaraventò da una mensola modellini, soldatini e uccelli imbalsamati e poi si lasciò cadere al muro, ansante, in lacrime.
Fissava la parete davanti a sé, ricoperta dal parato stracciato, senza capire cosa vedesse.
Non ne poteva più, avvertiva una vertigine avvolgerlo, come la notte in cui a nove anni si era alzato per andare in bagno.
Suo padre era seduto a terra, spalle al muro come lo era lui adesso, la canna del fucile in bocca e il sangue che gli colava sulla faccia.
Poi la voce di sua madre alle sue spalle.
«Vattene in camera tua!»
Un’ora dopo la casa era piena di infermieri e poliziotti. Ricordava ancora le luci delle sirene che, dalla strada, si schiantavano contro le finestre; i passi di tanti sconosciuti su e giù per il corridoio; sua madre seduta su una sedia, avvolta da una coperta, mentre due infermieri portavano via dal bagno un’enorme sacca nera.
Dopo il funerale, sua madre non gli aveva più permesso di parlare di quel giorno. Ma lui ricordava. Ricordava lei. La vedeva ancora, poche ore prima che suo padre morisse, uscire dalla cantina con delle munizioni in mano.
«Che fai qui? Torna subito a casa, piccola bestia, o guai a te.»
E poi i rumori che l’avevano svegliato di notte, e subito dopo un boato come le esplosioni che sentiva nei cartoni animati.
Sferrò un pugno contro al muro alle sue spalle e mollò una pedata a terra, spaccando la tazza di suo padre. In fretta si tirò su e raggiunse la camera di sua madre. Le camminò addosso e si gettò sul materasso, strisciandoci sopra fino ad arrivare all’altra estremità del letto e affondare la mano sotto la rete.
Tirò fuori uno scatolone impolverato. Non lo vedeva da quando aveva vent’anni. Sapeva cosa c’era lì dentro, la condanna a morte di suo padre, foto che lo ritraevano con belle ragazze e lettere d’amore macchiate di rossetto, una verità sepolta in cui inabissò il braccio fino a stringere ciò che era rimasto di suo padre: il calcio di un fucile, poi il poggiamano e la canna.
Risentiva ancora la voce di un vecchio poliziotto dirgli: «Tanto si è trattato di suicidio, sono passati tanti anni e tu sei un così bravo ragazzo.»
Montò alla svelta l’arma e guizzò in camera sua. Segnò sulla scheda appesa al muro, sotto la foto di Lara, 30 novembre 2018. Poi spalancò la finestra e puntò la canna contro l’appartamento di fronte.
Sapeva di non poter fare altrimenti, come sua madre quando era uscita dalla cantina con le munizioni in mano, decisa a tutto pur di liberarsi di ciò che la stava uccidendo lentamente.
Ma Lara non si decideva a rientrare.
Restò più di un’ora alla finestra, un occhio incollato al mirino e lo sguardo fisso sulla finestra di Lara. Portava di continuo una bottiglia alla bocca segnando con ogni sorso lo scorrere del tempo.
All’improvviso la sgommata di un’auto lo fece sobbalzare. La notte parve spaccarsi sotto al fragore delle risate di una donna, una voluttà quasi animalesca che sembrava volesse insultare la sua impotenza.
Vide la BMW nera parcheggiare sotto casa di Lara e lei scendere accompagnata dall’uomo dell’altra volta: le cingeva un fianco e aveva il viso così vicino al suo da sembrare volesse baciarla, appena un respiro separava le loro labbra.
Il signor Esposito mosse il dito sul grilletto, ma un brivido fulmineo gli percorse la schiena. Non riusciva più a muoversi, dal mirino vedeva il volto di Lara così vicino al suo: non smetteva di sorridere, appariva così felice.
Si staccò di colpo dal vetro e con il calcio del fucile spazzò via da una mensola una manciata di soldatini.
No, magari si sbagliava. Sì, forse era tutto un equivoco, non altro che un immenso equivoco.
Era stato con lei tutto quel tempo, non l’aveva lasciata sola un istante. Erano una sola cosa. Non poteva esserci un altro.
La luce dell’appartamento di Lara si accese e lui all’istante ci puntò contro il fucile. Non si era accorto che erano saliti. Seguiva ogni loro movimento.
Ore 23.54: Lara e l’uomo della BMW bevono vino e ridono.
Ridevano, sì, ridevano di lui: brutto, goffo, timido, chiuso in quella casa a sfamare una madre ridotta a un fenomeno da baraccone. Ridevano di lui e della sua vita, in quel tepore che loro potevano afferrare e a lui invece era solo concesso spiare.
A un tratto li vide sparire nella camera da letto, ridevano ancora, adesso sembravano euforici.
Si tirò in piedi e indossò alla svelta il capotto, ci nascose sotto il fucile e corse via di casa.
Ore 00.09: Lara è in camera da letto con l’uomo della BMW.
Scese le scale in fretta, febbricitante, continuava a ripetersi che si sbagliava. Non era come pensava, non poteva esserlo, oppure tutti quei giorni, gli appunti presi, ogni cosa sarebbe stata inutile.
Corse veloce in strada, gli edifici attorno a lui si susseguivano come dedali di cemento. Solo poche finestre erano accese. Non si udiva alcun rumore, tutta la città si era come paralizzata.
Sfondò con una spallata il portone del palazzo di Lara ed entrò spedito nell’androne. Si guardò attorno, affannato. Quale scala era? Qual era il suo appartamento?
Si fece strada alla cieca, ormai non nascondeva nemmeno più il fucile, lo imbracciava e mirava a ogni porta.
Raggiunse il terzo piano, lo stesso di casa sua. Scrutò i nomi incisi sulle targhette, roteavano davanti a lui. Poi a un tratto uno gli si conficcò nelle pupille: Lara, Lara Esposito.
Senza il minimo indugio sparò alla porta, la serratura saltò in aria come il tappo di una bottiglia.
Dall’appartamento si udirono urla: grida di una donna e di un uomo.
Si spinse con fare febbrile in casa, dal pianerottolo giungevano strilla e passi.
«Chiamate la polizia!»
«È armato!»
Ma a lui non importava. Avanzò in un corridoio spoglio fino a raggiungere la sala da pranzo che aveva spiato per giorni, settimane. Le ciliegie erano ancora sul tavolo, lui invece le aveva mangiate tutte.
Superò la camera da pranzo e lesto arrivò di fronte alla stanza da letto.
Restò qualche istante a fissarla incredulo, come se davanti a lui ci fosse un mostro: sua madre ferma nel bagno che gli urlava senza che lui ne sentisse la voce, mentre dietro di lei giaceva il corpo di suo padre.
Quasi sorrise nel premere il grilletto. La serratura saltò in aria e la porta si spalancò di colpo.
Lei era lì.
Sul letto c’era Lara, nuda, si stringeva in un lenzuolo e urlava. Accanto a lei l’uomo della BMW agitava le braccia e strillava, ma il signor Esposito neppure lo vedeva. Non udiva niente. Osservava solo labbra muoversi, ma nessun suono gli giungeva oltre alle grida di sua madre: «Sei un buon a nulla come tuo padre! Senza di me non faresti niente.»
Serrò le palpebre e schiacciò il grilletto. Ci fu un poderoso boato. L’uomo precipitò sul letto e sul muro schizzò una chiazza di sangue, sembrava un cuore.
Lara urlò e corse verso il balcone. Il signor Esposito la seguiva con lo sguardo e sorrideva, non gli era mai sembrata così bella.
Pigiò di nuovo il grilletto. Udì appena un suono ovattato. Il volto di Lara era fisso davanti a lui, paralizzato in una smorfia raccapricciante.
La vide cadere in una pozza di sangue, gli occhi ora finalmente immersi nei suoi. Non si muoveva più, guardava solo lui.
Crollò al muro e abbandonò il fucile fra le cosce. Fuori dall’appartamento urla e passi aumentavano a dismisura, dalla strada si sentivano le sirene della polizia avvicinarsi.
Debole, quasi si stesse trascinando, il signor Esposito prese un foglio e una penna dal cappotto. Sorrise.
Ore 00.19: Io e Lara siamo finalmente insieme.
Lasciò il foglio sul pavimento, strinse il fucile, si portò la canna alla bocca e sparò.
Per un attimo gli parve di udire la voce di Lara.
Il giorno dopo finì nello schedario 9466, dicembre 2019, plico I, proprio accanto alla scheda di Laura Esposito.

(c) 2023 Marco Peluso


Marco Peluso, autore napoletano classe 81, ha esordito nel 2013 pubblicando con la Damster Edizioni il suo primo romanzo: Viola come un livido, premiato al Buk Festival di Modena nel 2014. Con Damster ha pubblicato altri cinque romanzi in formato digitale, altri due sono usciti con Lettere Animate e Meligrana. È stato inoltre curatore e autore di due antologie: una edita da Damster e un’altra da Les Flaneurs.
Nel 2016 ha iniziato a studiare scrittura creativa con Antonella Cilento presso la scuola Lalineascritta, dove si è confrontato con figure editoriali quali Antonio Franchini, Giulia Ichino, Alberto Rollo, Manuela La Ferla, Laura Bosio e Bruno Nacci. Nella stessa scuola ha studiato scrittura drammaturgica con Stefania Bruno, mestieri editoriali con Stefania Cantelmo e Giuseppe D’Antonio e sceneggiatura con Francesco Costa: materia studiata anche presso la Pigrecoemme prima con Massimiliano Virgilio, poi con Rosario Gallone.
Due sue racconti sono stati pubblicati sul quotidiano Il Roma. Nel 2019 ha partecipato all’antologia Il grande racconto di Renoir, edita da Edizioni della sera. Nel 2020 è stato curatore e autore dell’antologia Bambini in pausa, pubblicata da Meligrana editore. Per le riviste letterarie ha pubblicato racconti su Nazione Indiana, su Micorizze, Salmace e Grado Zero. Un suo mini racconto è risultato tra i vincitori della Call N°12 indetta dalla Oblique sulla pagina Instagram Atomi_Oblique e pubblicato sulla rivista Retabloid, curata da Leonardo Luccone.
A novembre 2021 è uscito per Linea Edizioni il suo nuovo romanzo, Piciul, scelto dalla giuria tecnica della 68° edizione del Premio Napoli.
Editor freelance e ghostwriter, ha diversi progetti di narrativa, teatrali e cinematografici in cantiere. Ha collaborato con realtà nel mondo dell’editoria tra le quali la Giulio Pisano Editor, l’agenzia Saper Scrivere e la scuola di scrittura creativa Lalineascritta.
È innamorato di Victor Hugo e ha una vera ossessione per Georges Simenon.

Commenti

Post più popolari