Rivelazione - Un racconto omaggio a H. P. Lovecraft




A H. P. Lovecraft, 

con affetto orrorifico


Sono giorni che all’orizzonte non si vede altro che acqua. Ma io so. Sono in agguato. Aspettano. Mi scrutano. Fiutano l’odore della mia tensione. La paura che mi scorre nelle vene. Attendono di infliggere il colpo risolutivo. La mia eliminazione.

Stringo saldamente il fucile mentre il sudore mi cola sulla fronte e impregna la mia camicia come una doccia fetida. Sabbia e salsedine irritano ogni mia cellula ma di quello non mi importa. Non mangio da giorni:la pelle è cotta dal calore del sole e disidratata brucia a contatto con la stoffa dei miei indumenti. Devo rimanere vigile. Non posso farmi prendere nel sonno perché sono l’ultimo rimasto, l'’ultima flebile speranza prima che la follia si spanda come cancrena su queste coste. E dire che l’Adriatico è un mare tranquillo. La fogna dove scarica il Po – dicevano le malelingue. No, non è una fogna. E’ l’anticamera dell’Inferno.

Non ricordo quando il primo di quegli esseri affiorò da queste acque. Ormai il tempo è talmente ciclico che ho perso la cognizione. Giorno e notte per me sono una linea retta divisa solo dall’orizzonte e da ciò che lo illumina. Ma ho perfetta cognizione di quel giorno. C’era un flebile vento, gli ombrelloni erano tutti aperti. Una festa di colori. Strisce blu, arancio, bianche – l'inizio dell’estate. Bambini che giocavano insieme a i loro genitori in riva al mare a costruire i castelli di sabbia. I classici attimi di felicità che si possono vedere negli album di foto di qualsiasi famiglia. Poi, improvvisamente, il cielo si era oscurato. Le lame di luce del sole non riuscivano a bucare quella coltre. L’azzurro del cielo, il verde della pineta e i colori degli ombrelloni si tramutarono in grigio antrace e nero piombo. L’acqua iniziò a ribollire mentre lentamente la marea si ritraeva. Come una gengiva infiammata, metro dopo metro, l’acqua correva verso l’orizzonte svelando come un macabro sipario il limaccioso fondo gravido di alghe, legno e fauna morta. I pesci boccheggianti avvolti dalle alghe verdi sembravano una ferita purulenta inguaribile. L’odore di marcio si innalzava mano a mano che il mare, come noi lo conoscevamo, stava scomparendo sotto i nostri occhi ancora allibiti.

Io, ricercatore presso la facoltà di Archeologia a Bologna, non avrei mai pensato di trovarmi di fronte i prodromi dell’apocalisse. Stava avvenendo proprio sotto i nostri occhi sconvolti. Stava accadendo proprio come l’antica tavoletta che io e il professor Krause, dell’Università di Berlino, stavamo analizzando in quelle settimane nello scantinato dell’Università. Donazione misteriosa fatta da un magnate volutamente rimasto anonimo, il reperto era dura ossidiana scolpita, lunga circa un metro e mezzo e finemente intagliata: recava bassorilievi di una civiltà più antica dei popoli mesopotamici, quattro sezioni intagliate nella dura pietra nera. 

Le prime due rappresentavano l’oscuramento del Dio Sole e il ritiro delle Maree. Ma il terzo bassorilievo svelava l'arrivo. Occhi gialli, fanali filtrati dal ribollire dei flutti, cominciarono ad apparire come pustole sul manto di una mucca malata. E poi emersero come  tappeti di dure squame spinose, artigli come lame di Toledo e lingue viola grondanti bava mefitica. Impugnavano lance fatte di ossidiana lunghe quasi quanto le loro code artigliate. Uomini anfibio. Rettile e pesce nello stesso essere, figli di un dio dimenticato dal tempo e dallo spazio avanzavano emettendo sibili come sonagli di un crotalo velenoso. 

Poi, la mattanza iniziò. Come un enorme tonnara senza le reti, gli uomini anfibio iniziarono a falciare ed infilzare i poveri bagnanti ancora pietrificati mentre spruzzi rosso rubino impregnavano il secco bagnasciuga. Ricordo benissimo le teste mozzate di bambini indifesi, il rumore delle lance dentro il petto dei loro genitori mentre le costole venivano frantumate, gli organi bucati. Le budella calde si mischiavano al vomito e alle feci. La spiaggia era diventata un enorme cloaca dove urla e sangue si mischiavano ai corpi e alla merda.

Gli esseri, completamente ricoperti di sangue e viscere delle loro vittime menavano fendenti come mietitori in un campo di grano durante il raccolto. Nel frattempo, colpo dopo colpo, tra le urla delle persone in fuga, grumi plumbei si avvitavano nel cielo mentre un rosso innaturale pulsava sotto di essi. Sembrava che il cielo fosse un enorme vulcano in procinto di esplodere. L’aria era diventata umida e pesante. Sapevo cosa stava arrivando. Volevo vedere. 

L’ultima raffigurazione della tavoletta.

Fuggivo dalla spiaggia insieme ai pochi sopravvissuti. Passi pesanti sulla sabbia dura, verso l’entroterra cercando riparo da quella furia. Ma l’orizzonte calamitava il mio sguardo. Quel mare nero petrolio dove quei demoni orgasmavano nella loro violenza monopolizzava i miei bulbi oculari. E poi, il boato. La terra tremò sotto i nostri piedi. I pini si scossero come pompon in mano a cheerleader, gli ombrelloni divelti dalla furia degli elementi sembravano stuzzicadenti nelle mani di un gigante. Il vento salì di intensità e la sabbia tagliava il viso ed offuscava la vista. Persi l’equilibrio e caddi, ma in quel momento lo vidi: un enorme monolite, forma cuneiforme. Un obelisco. Dente cariato che bucava la volta del cielo. Cuore pulsante di tutta la malvagità accumulata in quei secoli. Potevo avvertire la sua potenza, il suo potere, i suoi artigli affondare nel mio spirito. Calamita innaturale, cobra incantatore a cui non mi sarei potuto sottrarre. Poi, come avesse ricevuto un segnale, la terra cessò di tremare. Il vento si calmò. Anche il mare, rubina pentola in ebollizione, smise il suo gorgheggio. Molti cadaveri, bambole di pezza senza le piume, galleggiavano immoti in quella immensa palude tramutata a cimitero senza lapidi. Un silenzio innaturale.

Gli assassini, brillavano nell’oscurità grazie alle loro orribili squame puntute e ai loro orridi occhi gialli. Volsero i loro occhi all’antico monumento. Dalle loro bocche uscì un urlo che nemmeno nei miei peggiori incubi avrei mai immaginato di sentire. Stridulo, carta vetrata su pietra, scorticò e torturò i miei timpani. Le vertigini mi presero, la vista cominciò ad annebbiarsi. L’ultima cosa che vidi erano gli artigli di quei demoni protendersi verso quella protuberanza vomitata dal ventre della terra. Muscoli tesi, foresta squamosa di arti che riflettevano le luci dell’inferno. Poi il buio mi accolse tra le sue braccia.

Mi svegliai. Non so quanto rimasi senza conoscenza. Il sole brillava nel cielo come un foruncolo rovente su pelle tersa di colore azzurro. Avevo la pelle che bruciava e la gola riarsa. Mi scossi dai grumi di sabbia e detriti accumulati. Sputai bile e sangue. Mi pulii con il palmo della mano e sollevai lo sguardo verso la spiaggia. Tremavo al pensiero di ciò che avrei visto. Il mare era tornato al suo posto, argento liquido sotto i raggi del sole. Nessun cadavere spuntava dalla sabbia. Solo alcuni ombrelloni anneriti spuntavano come chiodi arrugginiti dalla terra. Il Nulla. Desolazione più totale. Una tabula rasa uscita dall’inferno primordiale. 

Ma io so che non era finita. Trovai un fucile in una rimessa abbandonata di un vecchio pescatore dopo che vagai come un profugo per tutto il dannato giorno.

Il Lido di Spina come lo conoscevo non esisteva più. Una città morta in attesa del colpo di finale. In attesa di eliminare l’ultimo baluardo. L’unico che sapeva. Muto osservatore di una mattanza primordiale. Io.


Ed ora, sono qui che li aspetto. Non mi sottraggo al mio destino. Non cadrò senza combattere. Cerco conforto nello stringere questo fucile, il mio rosario, la mia ancora di salvezza. A coloro che leggeranno queste mie memorie, che vi servano di lezione: salvatevi. 

La storia è un ciclo che si ripeterà in eterno. Un uroboro famelico che si nutre dei nostri continui errori, della nostra crassa ignoranza. Ho scritto questo affinché tu, Uomo, possa infilzare il rettile del tempo, uccidere il drago e dal suo sangue far germogliare una quercia che si nutre della linfa chiamata Speranza. Solo tu puoi farlo, io non ho più le forze, solo una lucida follia che ha guidato la mia mano sue questi fogli.

Ora, il momento dell’attesa è finito. Il cielo si sta oscurando. Il mare tra poco comincerà a

ritirarsi.

Non c’è più tempo. 

Arrivano.



(c) Giorgio Picarone 2021

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